Cronache

El mal de rece.
Grado. Convitto Fabio Filzi. Anno scolastico 1948-49. Classe prima media. E' notte profonda e fa freddo. Lotto da un bel po' di tempo contro un tremendo mal d'orecchio. Poi, lascio la mia branda e vado a chiedere aiuto all'infermiera. L'infermiera è anche la cuoca, una signora robusta continuamente indaffarata tra cucina e refettorio. Busso alla sua porta ..."Chi xè?"... chiede una voce quasi spaventata. Ed io ..."me fa mal la recia"... la risposta è immediata ..."Va via, va a dormir che te passarà!" Insisto ancora un po' e ricevo la stessa risposta. Torno a letto e il dolore all'orecchio aumenta d'intensità. Ritorno sconsolato dalla cuoca infermiera. Ribusso e la scena precedente si ripete. Insisto. Sento del movimento dietro la porta, che finalmente si apre..."dai entra"...mi dice la cuoca infermiera e mi fa entrare nella sua cameretta. La cameretta è uno sgabuzzino senza finestra, a stento contiene un letto addossato al muro. Assonnata mi dice "dai monta in letto" ... io mi sdraio sul letto aspettando un controllo all'orecchio ... "dai, spostite contro el muro"... e con gli occhi semi chiusi si butta sul letto. Il letto si affossa dalla sua parte e io le finisco addosso con l'orecchio contro la sua schiena. Silenzio assoluto; apro gli occhi ma è buio pesto. Mi addormento. La mattina presto la cuoca infermiera si alza..."ma cossa ti fa qua!? dai va a dormir in camerata che mi devo andar a preparar la colazion per tuti". Corro via, mi restano ancora un paio di ore di sonno. Cosa mi ha fatto passare il mal d'orecchio!? Il tepore di quel letto già riscaldato dalla corpulenta cuoca infermiera!? La cantilena del suo profondo e regolare respiro?! Il sentirsi cullare nel letto che ritmicamente si muoveva ad ogni suo respiro!? NO, più probabilmente è stato l'odore del letto e delle coperte che tanto assomigliava a quello dei miei genitori. Giovanni Minach

I distintivi con l’alabarda.
Nel pomeriggio il comandante Gigi Magellandi ci ha riuniti in coperta per commemorare il primo anniversario dello sbarco a Trieste e ha preteso che esibissimo i distintivi che l’anno precedente in quella occasione ci erano stati forniti. E’ risultato che solo il medico di bordo, Giovanni Tommaso Musco, ne era ancora in possesso e il comandante, indignatissimo, ha minacciato di farli pagare 150 lire. A questo punto si è alzato Nino Anacleto Cerlenco e ha chiesto “Tutti insieme?”. Magellandi si è ritirato nella sua cabina senza ulteriori insistenze. Tratto da La Caravella postuma, edita in proprio da Ennio Tubo Milanese, quando ch’el se sentiva ancora dei nostri (adesso el ga deciso de esser solo ex brindisin)

Redipuglia.
Come tutti ricorderanno, il 4 Novembre di ogni anno venivamo messi in divisa e mandati a Redipuglia per onorare i caduti della Prima Guerra. In una di queste occasioni, la prima squadra era schierata a una estremità del gruppo Filzi e Alessandro Tola Lazarevich era in prima fila verso l’esterno, causa la non eccelsa statura. Dovevamo fare abbastanza pena con i cappottoni blu fino ai piedi e con i baschi fuori misura. Due ragazze chiesero a Tola “Ma voi siete sordomuti?” e l’infame, senza ridere, rispose “Sì!”.

Don Maffeo.
L’episodio riguarda il periodo in cui il Filzi era ospitato al Seminario Vescovile, tra settembre 1950 e aprile 1951. Il sacerdote addetto alla cura delle nostre anime era Don Maffeo. Il quattro novembre del 1950, mentre il grosso dei convittori faceva picchetto a Redipuglia, pochi allievi erano rimasti nel seminario, per lo più reduci dall’infermeria. Tra questi Mario Papavero Vigiak che, seduto al suo banco di studio, vide don Maffeo sederglisi vicino e parlargli in modo suadente. Dopo qualche minuto Don Maffeo insinuò la lingua in bocca all’imbarazzatissimo Papavero. Fortunatamente si aprì la porta del bagno in fondo al corridoio e per un attimo apparve Franco Fornaretto, avviato al suo studio. Fu un attimo e Vigiak prese la fuga dicendo “Scusi, devo dire una cosa importante a Fornaretto”. Dopo che lo ebbe raggiunto, gli chiese “Ciò, cossa vol dir ch’el me ga messo la lingua in boca?” “El te ga basà, mona” “A mi? E perché?” “Xe meio se ti resti qua con mi fin che no torna tuti”. Don Maffeo fu allontanato dopo poco, perché altri si erano lamentati delle sue avances durante la confessione.

Cronache dal passato.
Nei mesi tra settembre e dicembre 2005, è arrivato molto materiale da Livio Stefani, che non è potuto venire al raduno di Grado e ai successivi per motivi famigliari, ma ha partecipato emotivamente alle nostre riscoperte. E' a lui che dobbiamo il recupero del Dolce Stil Novo. Ha dissepolto appunti e scritti dell'epoca e ce li ha mandati in ordine sparso, una volta scrivendo all'uno, una volta all'altro. Li abbiamo messi insieme (firmandoli L. S.) perché sono testimonianze di vita quotidiana che possono aiutare molti di noi a ritessere la trama dei ricordi o a rendere l’atmosfera di quei tempi.

El cine.
A Grado esisteva un cinema all'aperto, dove qualche volta gavemo visto qualche bel film, anche se de solito vegniva in collegio un prete, don Andrea, che ne proietava antichi film col suo proietor. Li vedevimo nel salon del "Excelsior", al piano tera, dove gavevimo anche el refettorio. Una volta gavemo visto el film "La città dei ragazzi", dove era un mulo un poco balordo che diventava bon per merito de padre Flanagan che era interpretado da Spencer Tracy. El mulo iera Mickey Rooney, che nel film se ciamava Whitty March. Bon, dopo gaver visto sto film, gavemo comincià a ciamar Whitty March ogni novo mulo che vegniva al "Filzi". Era un'abitudine che non gaveva tuti, ma solo noi del dormitorio dei ultimi arivadi, dove stava dieci muli de squadre diverse. Con mi era Poso, Baruffaldi, credo anche Coss, e altri, che non me ricordo. El primo novo mulo che xè arivà al "Filzi" dopo che gavemo visto quel film, era (pensa un poco) proprio l'amico Vigiak, che el doveva esser già un poco quadragonale quela volta. Vigiak xè stà el primo che gavemo ciamado Whitty March, poi altri due o tre, e l'ultimo xè stà el Visintini Sergio, che forsi un poco el ghe somigliava a Mickey Rooney. Dopo la storia sè gà esaurida da sola. "Da Ryan a Briggs" era invece un modo de comunicar dei marinai americani dele motosiluranti nel film "I sacrificati", che gavemo visto nel cine all'aperto de Grado. La risposta alla comunicazion era "Da Briggs a Ryan", col solito "passo" e "passo e chiudo". Anche questo modo de dir non era de tuti i muli del "Filzi", ma solo de quei dela mia squadra, quando volevimo dirse qualcossa. Veramente noi disevimo "Da Raian a Brix". Non te gò contà gnente de special, ma solo una picola roba tanto per riviver i veci tempi. (L.S.)

Ancora cine.
Proprio vero che i ricordi xe molto selettivi. Mi, per esempio, me iero dimenticà de "La città dei ragazzi" e invece me ricordo ben del primo King Kong, de "La passione secondo Matteo" (un poco pizzoso, ma 'ssai bel)e sopratuto de "I sacrificati", un grande film de guera de John Ford, che contava come, dopo l'invasion giapponese dele Filippine, una squadra de motosiluranti, comandada da John Wayne, zerca de ragiunger le retrovie nel Pacifico, a migliaia de chilometri de distanza, difendendose e atacando. Co iera el momento i lanciava quatro siluri: "Fuori uno, fuori due!" "Attenzione si ripete: fuori tre, fuori quattro!". Siccome iera un film epico, semo tornai in collegio tuti gasadi e marciavimo cantando l'ino dela marina americana. La nostra squadra occupava, quel anno, tre camerete all'ultimo pian del'Excelsior e come istitutor quela sera iera suplente Guerino Malusà: una bazza. Gavemo comincià a far assalti coi cussini, due camerate coalizade contro la terza, ma subito le alleanze se disfazeva e se ricomponeva. E sempre zigando "Fuori uno, fuori due!" "Attenzione si ripete." Semo andai avanti un toco, finché el povero Malusà, disperado, ga incomincia a menar le man. Questo a Grado. A Gorizia, invece, noi ne portava mai in cine fora, ma i ne faceva veder filmetti col proietor. Iera roba de propaganda fascista, tipo "L'assedio de l'Alcazar" o "Luciano Serra pilota". Oppure, mutatis mutandis, materiale de propaganda americana. Documentari tipo "La grande diga del Tennessee", cioè come i agricoltori de quela region se ga messo d'accordo colletivamente per organizzarse in funzion de espropri e abandoni, o "Nonna Moses", una veceta che se ga messo a piturar a 70 e passa ani (roba bruta, anca). Qualche volta anche cartoni animati: me ricordo galine che faceva i ovi al ritmo dela rapsodia numero due de Listz, e streptocochi o altre bestiuzze che andava in giro per el corpo umano. Nonostante questa cura, la passion del cine me xe rimasta. (M. V.)

Istitutori.
Ve ricordè del Desideri? El xè vegnù da noi, nela nostra squadra, el 29 otobre del 1952, e el era el più simpatico istitutor del Filzi a Gorizia, forsi solo dopo el Roman, che un paio de noi ciamavimo Walter perché el somigliava un poco a Walter Chiari. El Desideri (se pol vederlo nella foto del Perini) gaveva el baffo che conquista, e i cavei imbrillantinadi, el sembrava un conquistador meridional de donne, o un parucchier, sempre del sud, ma el iera picio de statura e svelto come un furetto. El iera anticonformista, e quando andavimo fora per la solita passeggiata (anche a Savogna, ma era un vizio comune!) nol ne fazeva mai star in fila, e qualche volta el ne portava anche in qualche osteria a far casin. Altre volte el ne portava a giocar a bala sula riva del Isonzo, soto el ponte della ferovia, dove ghe era un bel prato. Nol ne meteva mai in castigo a far el palo, come i altri istitutori. O al massimo per cinque minuti, e el ne insegnava anche vecie canzoni del varietà. Pò un bel giorno, de colpo, dala sera ala matina, el xè sparì in modo non del tuto ciaro, perché me ricordo che el povero Zaccaria iera disperado. Non lo gavemo più visto e non gavemo più savudo niente de lui. Pero el xè anche stado protagonista de un'altra storia che riguardava Ladislao C., che ve contarò un'altra volta. Anca del Cassar ricordo un anedoto. El iera apena arivado, el primo ano a Grado, e co'l ga comincià a parlar, el suo acento napoletan ne gà fato rider. E Catalano (ve lo ricordè?) el gà dito la sua batuda de spirito: "Comme se scurreggia a Napule", imitando l'acento del Cassar. Lui lo gà sentì e el ghe gà domandà cossa che 'l gaveva dito. E Catalano se gà salvà in corner: "Come si canta a Napoli", el ghe gà risposto. Ma el xe andà lo stesso a far el "palo" per un'oreta. (L.S.)

Saggi.
Ogni fine anno prevedeva un saggio nel quale gli allievi esibivano qualità canore e interpretative. Qualcuno ha diligentemente conservato il programma dei saggi del 1953, 1954 e 1955.

Ti “schiaffo” in cantone
Il pezzo di Livio Stefani intitolato “Botte” è stato pubblicato sulla Caravella suscitando la reazione di Zele. La cosa mi ha fatto sorridere, dal momento che con intenti scherzosi è stato scritto. Però non ho dubitato che fosse vero, perché coincide con i miei ricordi e so che non solo Stefani ha la memoria buona, ma che ha conservato anche una ricca messe di appunti. Tanto per dire, le frasi del Bon le avevo registrate anch’io in un quadernetto, ma il prezioso documento mi è stato sequestrato dallo stesso Bon. Stefani ha conservato la sua copia. Quelle espressioni non evidenziano l’ignoranza dell’istitutore, che aveva alle spalle buoni studi e in seguito altri ne ha aggiunti, ma solo la sua rilassatezza nel rivolgersi a ragazzi che parlavano in dialetto; inevitabile che noi, con i pochi divertimenti che avevamo, ne approfittassimo. Nello stesso modo, gli schiaffi non indicavano cattiveria o crudeltà, ma semplicemente il ricorso a metodi educativi ritenuti normali nella cultura dell’epoca. Chi è stato a Montalcino, sa che il Filzi era un luogo idillico, in confronto. E anche senza confronto: Prandi – sberle o no - era un uomo buono e onesto. Chi è stato a Rieti sa che non tutti i direttori erano onesti. Delle punizioni, e io ero tra i più castigati, nessuno ch’io sappia ha serbato rancore, anzi abbiamo fatto in modo che tutti i nostri vecchi istitutori fossero tra di noi ai raduni. Ciò premesso, penso che Zele avesse un po’ la coda di paglia, perché al raduno di Grado l’ho sentito dire che oggi non castigherebbe nessuno; e non va taciuto che allora usava lo schiaffetto con fragnocola, particolarmente doloroso. E risulta che uno dei fratelli Danielis, proveniente da Brindisi, è rimasto al Filzi un solo giorno: il tempo di vedere Zele picchiare uno dei piccoli e picchiare a sua volta il Zele. E’ una testimonianza raccolta al telefono da Fornasar, direttamente dal Danielis. Va detto che, se tra i ragazzi c’erano “gli innati discoli” citati da Zele, tra gli istitutori c’erano quelli con le mani “innatamente” più lunghe. E anche quelli che non avevano bisogno di usarle. Leghissa, per dirne uno, aveva un piglio militaresco e teneva alta la disciplina, ma non risulta che abbia mai alzato le mani. Ripeto: abbiamo accettato le punizioni come ineluttabili prodotti di un’epoca e io le consideravo un corollario dell’educazione. Qualche dubbio mi è venuto solo tempo dopo. Mi sono sposato ventunenne ed ero disoccupato. Allora sono andato a Gorizia per vedere se era libero un posto da istitutore. Sono stato indirizzato a un Istituto Assistenziale di Trieste, che mi ha assunto e mandato a Ravascleto. Qui c’era una colonia per ragazzi triestini, con alle spalle famiglie e situazioni disastrate. Alla prima trasgressione, mi è sembrato naturale mettere un ragazzo con la faccia al muro. Il Direttore mi ha lasciato fare ma, trascorsa un’ora, mi ha preso in disparte e mi ha detto, più o meno: “Questi ragazzi hanno una vita durissima durante l’anno, facciamo in modo che almeno qui vivano qualche momento di serenità”. Era una persona in età, dalla figura tozza e sgraziata, ma gli occhi erano limpidi e chiari. Mi sono vergognato. Non ricordo come ho fatto, so che mi sono guadagnato il rispetto dei ragazzi e, senza punizioni, ho ottenuto una più che decorosa disciplina. Erano passati solo quattro anni da quando avevo lasciato il Filzi. M.V.

Botte.
Le violenze manuali non erano una regola, anche se praticate. Volevo ricordare (simpaticamente, per carità, e forse con un po' di nostalgia) certe battute manesche dei nostri istitutori. Comincio col Bon, che all'apparenza era mite e pacioccone, ma dava delle sberle da togliere il fiato: nelle mie note trovo che un giorno (siamo al primo anno) il Bon picchiò un certo Del Ton, di cui non ricordo assolutamente nulla, con una riga, e quando costui gli rispose in malo modo, il Bon, ancora più infuriato, lo prese a sberloni e pedate, tanto che dovette intervenire perfino il Tulzo. Un'altra volta il Bon picchiò Zoppa addirittura con una sedia. Poi scapaccioni e "rovesciate" (come lui chiamava i manrovesci) erano all'ordine del giorno. Un altro che picchiava sodo era il Gabrielli, che sembrava distribuire sberle in modo scientifico, facendo solo oscillare il ricciolino che gli cadeva sulla fronte. Anche il Tulzo menava, anche se solo in casi eccezionali, ma le sberle più potenti erano quelle dello Zele, che ti lasciavano la faccia rossa per tre giorni. Il più comico era Malusà, che dava anche lui patacche da tramortire un toro, ma le dava prendendo la rincorsa e facendo un saltino finale, ciò che nonostante il dolore ci faceva morir dal ridere. Anche Cassar dava delle sberle da manuale (m'è venuta così, non l'ho fatto apposta), e anche Paoluzzi e Martini, e perfino il Desideri. Poi mi ricordo di una sberla di Lokar, che mi fece girare tre volte la testa, ma questa volta la colpa era mia perché il giorno di San Cirillo gli feci gli auguri chiamandolo Ciccillo. (L.S.)

Mularia.
Ve conto un picolo anedoto de mio primo giorno al "Filzi". Era el 20 novembre del 1948 (altro che giurassico!). El Zele me ga menà inte l'aula del Bon, ma non ghe iera posto per mi, alora el Bon me ga fato sentar vizin a lui sul suo tavolin. El ga tirà fora del casetin un quaderno, una matita e una goma, e el me li gà consegnà a uno a uno, disendo: "Questo è tuo, questo è tuo, e questo è tuo." El me pareva un bon tipo, mite, cussì che go domandà a Nico Missich, che conossevo perché el abitava nel campo profughi de Mantova come mi: "Xe bon sto qua?" E lui me ga risposto: "Sì, sì, xe el Bon." A proposito de Mantova, era molti al "Filzi" che i vegniva de là: Blasevich, Brighenti, Missich, Baruffaldi, Grossich, Rosiglioni, Sossich (che però era un "grande": el andava già in terza media quando noi andavimo in prima; el era compagno de scola de Garcovich). Poi era uno che se ciamava Sandro, ma non me ricordo el cognome. Forse se lo ricordarà qualchedun altro. El era rosso de cavei, un poco pel di carota, e el gaveva le lentiggini. Nei mii appunti del tempo, el xe sempre citado solo come Sandro, perché in campo a Mantova se ciamavimo solo per nome. (L.S.)

Giatti.
Ti me ga scrito che non ti gavevi confidenza coi "grandi", come Brodnik e i altri. Be' anche mi da principio, ma poi, verso la fine de l'ultimo ano, noi del "Classico", mi, Viverit e Ranzato, semo passadi dalla terza alla prima squadra, e un poco de confidenza la gavemo preso. Me ricordo el carattere generoso dei poveri Da Re e Marchich, una corsa in bicicleta con Brodnik sul vialeto davanti al "Filzi" (con due pedalade el me ga distacà de venti metri!), e Cerlenco che dormiva nel leto vizin al mio. Ma sopratuto el povero Giatti, che i ciamava Ghega (e se i lo voleva far rabiar i lo ciamava Cassar). Giatti abitava a Sarzana e sicome mi abitavo in provincia de Genova, parlavimo spesso della Liguria e della Riviera. I "grandi" andava fumar de nascosto drìo quela baracca che stava in fondo al cortil del "Filzi", e Giatti me diseva, con aria de complicità: "Andemo aaaa...", tanto che quel "aaa" xe diventà una specie de parola d'ordine. Perfin sull'album dei ricordi, invece delle solite dediche che me meteva i altri, el Giatti me gà scrito una sola parola: "aaaaaaaaa...". Be', me go dilungà di novo, ma quando ariva i ricordi, i xe come le ciriese: uno tira l'altro. A proposito de Giatti deto Cassar: qualchedun, Caluzzi credo, lo ciamava così perché el era nerisimo de cavei, e el gaveva una barbazza, che ghe aneriva el viso anche apena rasada, proprio come al Cassar. (L.S.)

Nello studio col povero Martini, ero nel banco col Picio Viverit, vizin alla porta. Go ancora l'ordine dei posti, e lo trascrivo, per quei che fazeva parte de quela squadra. Fila de destra, vicino alla porta: primo banco: Viverit e Livio Stefani; secondo: Vani e Musicek; terzo: Aquilante e Canevari; quarto: Millich e Furlani; quinto: Labate e Atelli; sesto: Massarotto e Fornasar; settimo: Rossi e Host. Fila di sinistra, vicino alle finestre: primo banco: Giordani e Moro; secondo: Pocali e Raccanello; terzo: Ranzato e Zacchei; quarto: Perini e Cappellari; quinto: Schira e Cainer; sesto: Buttolo e Coss. (L.S.)

Sappada.
Ve ricordarè che a Sappada, la prima estate (quela del '49) Fornasar lo gavevimo sopranominà Paperino, per el modo che el tigniva i labri. Poi gavevimo ciamado Topolino el Moderini, perché el era picolo e sgaio; Livio Stefani era Pluto (chi sa perché, forse el somigliava a un can?) e altri gaveva nomi della Banda Disney. All'istitutor Pas'cipa Defilippis lo gavevimo ciamado Papà Disney. Andavimo a netar quell'abetaia vizin al Piave, che doveva diventar el "Parco Filzi" (el esiste ancora?), e fazevimo le barchete co la scorza dei abeti. Quell'estate, appena rientrati alla colonia montana da un breve mese trascorso a casa, eravamo tutti pieni di nostalgia, e con un magone grosso così, prima di riabituarci alla vita di collegio. Ricordo che con Tarticchio facevamo ingenui, assurdi, improbabili piani di evasione e addirittura di distruzione della sede che ci ospitava. Lì abbiamo tenuto anche un saggio ginnico. Bei tempi! (L.S.)

A proposito di soprannomi.
Quasi tutti, tra allievi e personale, avevano il soprannome: mitico quello del Direttore, “Tulzo”. L’Istitutore Defilippis è Pas’cipa, Martini Bocca, Lokar Ciccillo o anche Pappotar, Tarticchio maggiore è Pampe, Furlani Za la Mort, Dobosz Bimbo”, Zocchi Cadaver. Tra i ragazzi, nessuno ricorda quale fosse il vero nome di Sidol: al posto di molti denti aveva delle protesi di metallo, presumibilmente per motivi economici, e qualcuno (il Tubo, tanto per non fare nomi), durante le abluzioni pre notturne, impietosamente gli chiese "Ciò, ma ti te lavi i denti col Durbans o col Sidol?"; da allora non è stato chiamato altrimenti. Il quale Tubo non è altri che Ennio Milanese, proveniente dal Convitto di Brindisi, coniatore di molti soprannomi in tre anni di permanenza al “Filzi”. Fu lui, dopo mezzora dall’insediamento in cattedra del nuovo Istitutore Lokar, a sentenziare Ciccillo. Giatti era detto Ghega o anche Crapa e Da Re, il suo quotidiano partner al gioco delle plozze, Sintesi; Fornasar, per il modo di tenere le labbra, era Paperino; Moderini, picolo e sgaio, è Topolino; Livio Stefani Pluto; Vosilla Burro; Rossi Què bo? e Franco Cossovi Impatador (per come guardava le ragazze, non per i risultati); Claudio Schira Crisi; Luciano Massarotto Passero; Alessandro Lazarevich Tola (per il modo di tenere schiacciata sotto braccio la tavola da geometra, che per la brevità dell’arto non riusciva ad afferrare da sotto); Narciso Caluzzi Cin Cin. E ancora: Giannantonio Lodi era il nostro Negus, quando non Pik Badaluk; Dorini Peck (ma anche Fritola per una macchia difficilmente eliminabile sul giubbetto d’ordinanza o ancora Pigafetta); Perini Orso per la folta peluria, ma anche Polacco, in quanto la sua specialità al pianoforte erano le polonnaises di Chopin; Viverit Picio per la non eccelsa statura; Ranzato Zocco per il polpaccio pronunciato; Musco Tommaso con palese riferimento all’Aquinate. E ancora: Vidolin, con vaghi echi kiplinghiani, era chiamato Rikki Spikki Spavi (o più appropriatamente Grimaldello); Cerlenco senza sforzi allusivi Gas o Anacleto il gasista; Zacchei Zaccheo Zebedeo, Canevari Carmelo, Coss Angelino (aveva la conformazione fisica del nipote della famiglia Disney); Faraguna Dodo fin dai tempi brindisini; Del Missier è sempre stato Sozio per tutti.

Trieste Italiana
Negli anni tra il 1950 e il 1953 era molto calda la questione dell'italianità di Trieste. I convittori del Filzi hanno partecipato a molte manifestazioni con le relative scuole, in mezzo a caroselli della Celere, a Gorizia con episodi per fortuna non violenti. A Trieste vi fu una sparatoria che provocò vittime e feriti; lo zaratino Enrico “Crapfen” De Schönfeld venne colpito a una gamba e, chissà per quale nesso, fu accolto al Filzi per un anno. Nella foto sono riconoscibili da sinistra Ranzato, Tarticchio, Visintini.

Quel pomeriggio di un giorno da Filzi.
Ecco, al tavolino, Martini che, con i pugni sotto il mento, guarda nel vuoto con quei suoi occhi da spiritato... Al primo banco, qui, vicino alla porta, Viverit ed io, affaccendati in chissà quale opera di derisione del prossimo, ridiamo sommessamente. Dietro, al secondo banco, Vani e Musicek, con le teste unite, sì che i capelli dell'uno si confondono con quelli dell'altro, tentano di risolvere un problema. Dietro ancora, Aquilante, con la lingua fuori, disegna, e Canevari, che con le dita si tura gli orecchi, studia angiosperme e gimnosperme... Poi, al quarto banco, Millich si mangia le unghie, guardando distrattamente il libro di biologia; alla sua destra, Furlani fruga con un ago dentro una piccola ferita purulenta sull'avambraccio sinistro. Al quinto banco Labate sta giocando a "calcetto" coi giocatori di cartone; al suo fianco Atelli getta i dadi: fa un "giro d'Italia". Alle loro spalle, Masserotto armeggia con compassi, righe, china e squadretti, e Fornasar contempla l'ultima serie dei francobolli di San Marino. All'ultimo banco, coi libri davanti per non destar sospetti, Host e Rossi giocano a "morra cinese". L'altra fila di banchi: in coda, Coss e Buttolo sono assorti in una traduzione dal latino che non riesce; davanti a loro, Schira e Cainer discutono sul dubbio significato di una frase di Cicerone. Avanti ancora, Cappellari e Perini solfeggiano: Do-Re-Re-Mi-Do-Sol-Si-La. Al terzo banco, Ranzato è impelagato in un passo di Senofonte, di cui non capisce un tubo, e soffre: è tutto rosso e spettinato. Zacchei, con la testa fra le mani, sembra meditare, ma dormicchia. Davanti, Pocali fa il compito di francese; Raccanello, invece, guarda le mosche, che, ora che è finito l'inverno, fanno le prime timide apparizioni. Al primo banco, infine, Giordani sgranocchia un pezzo di cioccolato "Perugina", e Moro non la smette di fissare Martini. Il solfeggiare dei due "maestri" dà evidentemente fastidio a Ranzato, perché ogni tanto egli si volta e ingiunge loro di tacere. Povero Zocco! Non riesce a cavare un ragno dal buco. Ecco, si alza: va da Martini e gli sussurra qualcosa. Martini assente e Ranzato si avvicina al nostro banco. Come Viverit ed io avevamo previsto, viene a chiederci la traduzione della frase. Gliela diciamo insieme: lui ringrazia, mite, quasi rispettoso e umile, poi chiede: "Ma avete già finito di studiare, voi?" e dà un'occhiata di sbieco alla caricatura del Bon che ci sta davanti. "Uh!" gli rispondiamo con l'aria di chi la sa lunga... Se ne torna al suo posto, e noi gli ridiamo dietro perché gli abbiamo fatto una traduzione che non sta né in cielo né in terra... Poi ci chiniamo sul nostro lavoro: le caricature dei tipi più in vista al "Filzi". A un tratto s'apre la porta: alziamo gli occhi: il Direttore! Senti nello studio un tramestìo, un fruscìo di cose messe via in fretta e sostituite coi libri di scuola. Noi siamo vicini alla porta: se mettiamo via quello che abbiamo sul banco, il Tulzo ci vede! Non ci resta che sperare ch'egli salti a piè pari la nostra fila e che passi all'altra. Grazie a Dio, così avviene e, mentre lui passeggia di là, noi tiriamo fuori il libro d'inglese. Quello d'inglese, sì, perché il Tulzo non conosce questa lingua: se prendiamo qualche altro libro, è capace d'interrogarci: così invece non rischiamo nulla. Seguiamo con lo sguardo il Tulzo che passa fra i banchi: Giordani non mangia più cioccolata; Moro è chino sul suo libro. Il silenzio è perfetto! Martini, in piedi, guarda sempre coi suoi occhi da spiritato. I francobolli di Fornasar sono spariti fra le pagine del libro di algebra; Atelli ha coperto il "Giro" col quaderno di stenografia; Labate ha messo i giocatori di cartone sotto il banco e finge di pulirsi gi occhiali. Il direttore passa: interroga qua e là, poi si volge a me e a Viverit, forse con l'intenzione d'interrogare pure noi; ma lo sguardo gli cade sul libro d'inglese, e si trattiene. Chiede a Viverit soltanto come si pronuncia la parola "handkerchief"; il Picio accenna a uno starnuto: sì, la pronuncia è esatta, tanto il Tulzo non la conosce. Si avvia alla porta, sorride coi denti di metallo, e se ne va. Martini resta ancora un po' in piedi: si dirige verso Moro che lo fissa con uno sguardo di commiserazione e gli dà un colpo in testa. Moro sputa una battuta di spirito: non è ridicola, ma ridiamo tutti per far baccano. Anche Martini abbozza una smorfia con quella sua bocca da forno; poi torna al tavolo e si siede. Ormai Host e Rossi giocano di nuovo a morra; Labate segna un gol, e Atelli getta i dadi per il turno di van Steenbergen che era rimasto in sospeso; Fornasar ripone i francobolli nell'album, e Raccanello riprende la sua attività di osservatore di mosche. Fra poco dovrebbe suonare il campanello per la cena: molti hanno già il banco sgombro dai libri e tengono compagnia a Raccanello nel guardare le mosche. Fuori scende la sera: Perini guarda dalla finestra un'ombra che passa e l'addita a Ranzato: forse è la Sonia o l'Annamaria... Viverit ed io, intenti a disegnare caricature, ridiamo piano. Martini sbadiglia e spalanca un forno senza fondo. Noi, guardandolo, scoppiamo in una risata più forte. Martini se ne accorge e ci punisce: staremo in piedi a cena. Finalmente suona il campanello: ci alziamo dai banchi e ci mettiamo in fila, vociferando e schiamazzando. Martini ci avverte che se non facciamo silenzio non andiamo a cena. Silenzio. Solo Labate non è in fila: sta mettendo i giocatori nella scatolina apposita, ma non ne trova il coperchio. Se non siamo tutti in fila non si va a cena. Martini aspetta e se ne frega. Noi no, e chiamiamo Labate: "Dai, Labè, muoviti!" Finalmente viene in fila e usciamo nel corridoio. Davanti ci sono gli "stagnini e spellafili" e quelli della quarta squadra, che fanno la coda per andare a lavarsi le mani. Ecco: hanno finito e vanno in refettorio. Ora andiamo noi a lavarci le mani; io e il Picio restiamo nel bagno, così eviteremo di stare in piedi a tavola. Ormai nel corridoio non c'è più nessuno: dal refettorio ci giunge un rumore di stoviglie che ci stuzzica l'appetito, ma se non vogliamo stare in piedi, dobbiamo rimanere qui. Ci sediamo sul davanzale della finestra e immaginiamo torture più che cinesi per Martini-Bocca. Un passo risuona nel corridoio; usciamo a spiare: è il Direttore che va a mangiare. Ha lasciato aperta la porta del refettorio e lo vediamo distribuire la posta. Chissà se ce n'è per noi? Eccolo andare verso il nostro tavolo: ora si accorge che non ci siamo e si rivolge a Martini. Probabilmente gli chiede dove siamo rimasti. Arriva Aquilante: "Venite a tavola, ché il Tulzo vi chiama." Ci andiamo e restiamo in piedi davanti alle nostre minestre fumanti. Dalla nostra posizione vediamo tutti che mangiano e che comunicano con gli occhi, perché è proibito parlare. Al tavolo dietro di noi Ciccillo mangia rapidamente, ficcandosi in bocca tre o quattro bocconi alla volta; ha fretta: stasera è la sua serata libera e lo attendono gli amici, o forse la ragazza. All'altro capo della tavola c'è il Bon, che ha già finito la minestra e sta parlando con Cerlenco e Brodnik, e sorride con la bocca storta. Qui, al nostro tavolo Martini guarda fisso davanti a sé; all'altro capo, di fronte a lui, Paoluzzi, maleducato come sempre, tiene i gomiti sul tavolo e la testa fra le mani. Al terzo tavolo, Grandi si guarda attorno e Tarticchio, l'istitutore, sta ancora mangiando la minestra. Il vice, Zele, passeggia fra i tavoli in cerca di chi parli per sbatterlo in castigo. Al tavolo del Direttore c'è il Tulzo con l'economo, mentre al povero Zaccaria gli si raffredda la minestra. Povero vecchio Zaccaria! Lui sta ancora battendo a macchina le circolari del Direttore. Ecco, ora cominciano a portare i secondi: la Nina e l'Albina non portano più di due o tre piatti alla volta; Bravin, invece, ne porta sei o sette. I nostri secondi li posa la Nina sopra i bicchieri, perché non c'è altro spazio sul tavolo per i piatti. Al tavolo della prima squadra il Bon s'è alzato in piedi e si pulisce i denti gialli con lo stecchino. Lokar se n'è già andato da un pezzo. Neanche Zele c'è più... Oh, finalmente è venuto anche Zaccaria: la sua minestra è già fredda (anche la nostra): egli saluta il Direttore e l'economo, poi va dal Bon che lo chiama. Si dicono qualcosa e ridono; infine Zaccaria va a sedersi e comincia a mangiare. Il Tulzo e l'economo lasciano il refettorio, e il Bon fa alzare i suoi... "Padre... gliolo... Santo... Sia," il Segno della Croce è fatto, e se ne vanno. Ora si sentirà il baccano della ricreazione; eccolo: urla, schiamazzi, strepiti, e un canto di montagna... Anche la seconda squadra, quella di Paoluzzi, se ne va; poi è la volta dei nostri. Martini si alza, li fa alzare, fanno il Segno della Croce e via... Passando, i nostri compagni ci augurano "buon appetito"... Finalmente il Picio ed io ci sediamo e affondiamo il cucchiaio nella minestra, che è diventata gelida, dura: una colla... La quarta squadra si alza adesso e se ne va; la quinta sta ancora mangiando la mela. Grandi sbatte in piedi Tamaro che ha versato l'acqua sulla tovaglia. Dagli studî e dal corridoio giunge il baccano consueto di ogni ricreazione. Il Picio e io ce ne andiamo dal refettorio prima della quinta squadra; la mortadella in mezzo al pane e la mela in tasca: un ultimo sorso d'acqua, e via. Salutiamo Zaccaria e stiamo per uscire, quando Don Cassettina mette la testa in refettorio, scruta in giro e se ne va. Noi lo salutiamo e gli teniamo dietro. La porta dello studio della prima squadra è aperta: Caluzzi deride Vigiak che è punito in un angolo. Musco legge qualcosa... Sul davanzale della finestra Orliani, Giatti, Brodnik, Visintini e Cerlenco cantano "La Montanara". Ci si avvicina Radizza e ci ingiunge di andar via... Presso la porta dei gabinetti il Bon, Martini e Paoluzzi chiacchierano e ridono: noi passiamo dritti come se non li vedessimo. Nel nostro studio Atelli, Schira e Aquilante giocano a pallacanestro con una pallina di carta e il cestino dei rifiuti. Chi corre intorno ai banchi, chi canta, chi schiamazza, chi disegna sulla lavagna... Noi ormai possiamo far poca ricreazione: tra poco suonerà il campanello per andare a letto... Eccolo, infatti: driiiin... Martini lascia la combriccola ed entra in studio, il Bon lo imita, e Paoluzzi, rimasto solo, va al gabinetto, poi si reca anche lui nel suo studio. Siamo in fila davanti all'uscio: recitiamo la preghiera e usciamo. Per le scale qualcuno chiacchiera: "Starai in piedi", dice Martini. Ai lavandini c'è gran confusione: chi si lava i denti, chi i piedi. Ogni tanto uno spazzolino da denti cade nella vasca dove ci si lava i piedi, e poi ci vuole mezz'ora di strofinamenti per ripulirlo. Finalmente, bene o male, siamo quasi tutti a letto; solo Perini sta ancora piegando i pantaloni, Atelli sta mettendo via lo spazzolino, e Labate - eterno ultimo - è ancora ai lavandini... Qualcuno legge di nascosto, perché leggere a letto è proibito. Martini gira fra i letti, poi la luce si spegne e tutti si danno la buonanotte. Un letto è vuoto, intatto: è quello di Furlani, che parlava per le scale ed è in castigo nel corridoio: chissà quando verrà a dormire... e domani ci si alza presto... (L.S.)

Malandrinate.
Da un po' di tempo si verificavano frequenti sparizioni di soldi, così che ognuno di noi, per timore di vedersi portare via il denaro, lo nascondeva nei luoghi più impensati. E se uno aveva bisogno di spenderlo, invece che dal portamonete, lo vedevi togliere il denaro da una calza o dal dito di un guanto o dalla bustina del pettine. Questo, fuori dal collegio. In sede, invece, si usavano, a mo' di cassaforte, le fodere dei cuscini, o l'intercapedine fra il lenzuolo e il materasso, o persino l'astuccio dello spazzolino da denti. Tuttavia i soldi continuavano a sparire, provocando le giuste proteste dei derubati, e le indagini non approdavano a nulla. Dietro suggerimento del vice Zele e dell'istitutore Desideri, si era giunti a porre una vigilanza discreta, ma solerte e attiva a ciascuno di noi, anche a quelli più fidati, eppure i soldi sparivano. Finalmente, dopo molti giorni di preoccupazione, si notò qualcosa di sospetto: uno dei "ragionieri" spendeva soldi con disinvoltura; comprava giornali, dolci, sciocchezze... e tuttavia il denaro non gli mancava mai. Gli altri "ragionieri" avvertirono in segreto Desideri, e insieme seguirono ogni azione del presunto ladro. Vane attenzioni: egli non si sbottonò mai; eppure, ogni tanto, qualcuno di noi andava da Desideri a comunicargli che gli erano spariti i denari. Lo Zele era verde di rabbia e rosso di nervosismo: urlava come un dannato e si arrabbiò con tutti noi perché tenevamo abusivamente i soldi che, secondo il regolamento, andavano consegnati all'istitutore, che ci facesse le compere che desideravamo. Soltanto i "ragionieri" conoscevano il nome del sospettato, noi altri non sapevamo né che fosse un "ragioniere" né che i "ragionieri" sapessero chi fosse. Ma un giorno - era sabato, e noi eravamo andati alle docce per il consueto bagno settimanale - mentre alcuni di noi attendevamo il turno per far la doccia, Raccanello andò in dormitorio a prendere il sapone che aveva dimenticato, e vi trovò il tipo sospetto. In realtà, Raccanello, essendo anche lui uno dei "ragionieri", conosceva già il nome dell'amico, ma la scoperta rafforzò i sospetti. La domenica, durante la passeggiata, si parlò solo dei furti e si fecero varie ipotesi sul presunto colpevole. Insieme con Desideri c'erano i "ragionieri" Pocali e Raccanello, e Ranzato, cui piaceva molto farsi bello agli occhi di ogni istitutore. Con me e il "Picio" Viverit, c'era Furlani e poi anche C. Noi, come il solito, parlammo del Bon e dello Zele, di Ranzato e di altra gente che ci piaceva prendere in giro. Poi anche il nostro discorso cadde sui furti di denaro, e facemmo varie ipotesi, senza far nomi, naturalmente, perché eravamo dei banditi, ma ci dispiaceva calunniare chi ci era amico. - E se fosse lo Zele, - azzardò il "Picio" (Zele non ci era amico) - sapete, egli non vuole che noi si tenga denaro... - Ma era chiaramente una battuta. Ci avvicinavamo al grande ponte sull'Isonzo e svoltammo a destra, andando sulla riva dove si stendeva un fresco praticello; lì ci sedemmo e attorniammo Desideri che parlava dell'argomento del giorno. Poiché, però, egli non voleva che il sospettato udisse le sue parole, ci allontanò da sé e se ne andò a vedere scorrere il fiume. Io e il "Picio" fummo avvicinati da Ranzato che ci consigliò di stare attenti a parlare con una persona che non volle nominare. Noi insistemmo per sapere chi fosse questa persona, ma l'ordine di Desideri era di non incolpare nessuno prima di avere le prove certe, e così Zocco non ci disse niente. Pocali, grazie a un'amicizia più stretta, rivelò a me e al "Picio" che il ladro era un "ragioniere", e, dietro le nostre insistenze, ce ne disse il nome, ma ci pregò di far finta di non saper nulla. Io e Viverit promettemmo e non ne parlammo con nessuno, anche se ormai il segreto era quello di Pulcinella. Continuammo anzi a frequentare il sospettato, che tra l'altro era nostro amico, e si comportò con noi in modo onesto, perché, pur avendo i soldi in luoghi facili da scoprire, a me e a Viverit non sottrasse mai una lira. Piano piano, tuttavia, si sbottonarono tutti, Ranzato, Pocali, Raccanello, e lo stesso Desideri, che però non volle dare ufficialità alla notizia, ma anzi ci consigliò di continuare a frequentare il malandrino. Entro il giovedì seguente tutti sapevano che il ladro era C.; la notizia, però, non uscì dalla nostra squadra, e in collegio nessun altro, tranne Zele, era a conoscenza dei furti. C. non sospettava nemmeno che noi sapessimo, oppure era un così bravo attore da fingere ignoranza e ingenuità. C. era arrivato al "Filzi" ad anno scolastico già iniziato e non aveva trovato un posto nei banchi dello studio, così aveva dovuto accontentarsi di un vecchio tavolo messo in fondo all'aula. Non era simpatico, come del resto nessuno è simpatico quando è nuovo, ma poi avevamo finito per accettarlo e prima di Natale gli eravamo tutti amici. Di nome faceva Ladislao, e dapprincipio tutti lo chiamavamo "Ladi", ma poi io e Viverit, che eravamo maestri nel coniare soprannomi, lo avevamo ribattezzato Ovidio per l'enorme nasone aquilino che spiccava sul suo viso. Il naso, di stampo giudaico, e il cognome C., che alcuni dicevano fosse un'italianizzazione di Kraus, ci facevano pensare che fosse ebreo, e in realtà non lo vidi mai farsi il Segno della Croce quando andavamo a tavola. Per un po' di tempo i furti cessarono, e scomparvero anche le ombre fra noi. Lo stesso Desideri, visto che le cose si mettevano bene, fece in modo di scordarsi dell'affare, e non ne parlò più nemmeno con lo Zele, che forse l'aveva dimenticato anche lui. Però, subito dopo le vacanze di novembre, quando quelli di noi che abitavano più vicino andarono a casa per i Santi, i Morti e la Festa della Vittoria, il fattaccio si ripeté, e così il colpevole fu ufficialmente svelato. È noto che dopo le vacanze si torna in collegio tutti pieni di soldi, così che uno che ci sappia fare fa un bottino che gli basta per tutto l'anno... Andò così. Era il giorno di libertà di Desideri e con noi c'era Lokar, che non sapeva niente dei furti. Era suonato il campanello della sera e ci eravamo messi in fila per andare a dormire, quando Fornasar, che era appena tornato dalla vacanza si mise a gridare. Aveva cercato nella tasca dell'impermeabile i soldi che aveva portato da casa, con l'intenzione di tenerli con sé durante la notte, e non li aveva trovati. - Mi mancano i soldi! Mille lire! - esclamò rivolgendosi all'istitutore. Ci fu un mormorio e tutti ci voltammo istintivamente verso C. che fece il finto tonto, ma divenne pallido. Naturalmente Lokar chiamò lo Zele che accorse, rosso in viso come sempre ma, stranamente, senza urlare. Appena entrato, chiuse la porta dello studio con la chiave che si mise in tasca, poi, facendo un grande sforzo per non mettersi a gridare, domandò, con voce turbata e inspiegabilmente sorda, chi fosse il ladro. Ovviamente nessuno rispose, allora egli uscì dallo studio col Ciccillo e ci disse di pensarci su. Le nostre voci salirono alle stelle e tutti gridavamo: "Dai, Ovidio, confessa! Sputa!" Lui, continuando a fare il nesci, ma cambiando colori più di un camaleonte, continuava a negare spudoratamente. Dopo una mezz'oretta di chiacchiere vane, tornarono lo Zele e il Lokar e ci misero in fila a due a due in ordine di altezza; poi Zele cominciò: "Voi due, - disse ai primi - spogliatevi!" Non servì protestare: dopo cinque minuti eravamo tutti in mutande. Intanto erano giunti anche il Bon e Martini che si misero a rovistare nelle cartelle e fra i libri e sotto i banchi e sotto l'armadio. Lo Zele e il Lokar cercavano fra i vestiti e nelle scarpe. Noi guardavamo tutti C. ... La ricerca durò a lungo: era molto tardi e cadevamo dal sonno. Ma neanche fra i soprabiti si trovò nulla, e il Vice se la prese con Fornasar perché non aveva consegnato i soldi all'istitutore, come da regolamento. Ma Fornasar era appena tornato da casa e non aveva avuto il tempo di farlo, e quando lo Zele lo seppe, quasi quasi si scusò con lui... Finalmente andammo a dormire e, nel suo letto, trovammo Furlani, che era tornato in collegio alle nove e Lokar lo aveva spedito subito in dormitorio. Povero Furlani! Pur essendo stanco morto per il viaggio, si ostinò a restare sveglio fino a tardi perché voleva conoscere il mistero dei letti vuoti. Appena gli raccontammo la faccenda, sorrise seraficamente e chiuse gli occhi. Un minuto dopo era nel mondo dei sogni. Il mattino seguente facemmo una gran fatica ad alzarci. E si capisce: avevamo dormito due ore e mezzo meno degli altri. A Desideri raccontammo il fatto e qualcuno gli propose di far allontanare C. dal nostro studio e dal dormitorio, ma quando egli ne parlò allo Zele, questi non fu affatto d'accordo. Allora Desideri ci suggerì di portare fuori dal dormitorio il letto di C. durante la notte, e lui, dal canto suo avrebbe finto di non sentire nulla. Così fu fatto il piano: si scelsero i volontari e, la notte seguente, Rossi, che dormiva presso la tenda di Desideri, fu da lui svegliato per agire. Sarà stata la mezza dopo mezzanotte: Rossi svegliò ad uno ad uno tutti i volontari. Io fui destato da Musicek e m'infilai sotto il letto di C. Alla mia destra c'era Labate con una ciabatta in mano, a sinistra c'era Schira; più in là il "Picio", Host, Raccanello, Pocali, Musicek e Fornasar. Ormai s'erano svegliati tutti, solo C. dormiva o fingeva di dormire. Dietro la sua tenda Desideri, che quando dorme non russa mai, russava forte per far vedere che dormiva. Poi si svegliò anche C. e, nell'incerta luce delle lampade notturne, vide muoversi intorno a lui gente in pigiama, che sembrava minacciosa. Aprì la bocca per gridare, ma la ciabatta di Labate lo inchiodò sul cuscino; qualcuno gli tenne chiusa la bocca con la mano e altri lo tennero fermo sotto le coperte. Poi lo sollevammo con tutto il letto e lo portammo nel corridoio. Al mattino, però, ce lo ritrovammo in dormitorio, perché lo Zele lo aveva visto fuori e lo aveva aiutato a portarsi il letto in camerata. Desideri ci consigliò allora di non parlare più a C. e di ignorarlo completamente; ma non ce ne fu bisogno perché lo Zele gli fece pigliare armi e bagagli e lo relegò in quello sgabuzzino che osava chiamare studio. Lì il Kraus vi restò parecchio e fu sottoposto dallo Zele a un terzo grado, cui resistette a lungo. Ogni tanto uno di noi usciva dallo studio e andava a origliare alla porta dello sgabuzzino, poi veniva a raccontare agli altri quello che aveva udito. Si sentiva lo Zele che urlava, che diceva: "No! No! No! No!"; poi C. che protestava, il Tulzo che chiocciava e il Bon che grugniva. Poi un giorno Labate, che era andato a spiare, venne a raccontarci che C. aveva giurato sulla madre di essere innocente... Lo Zele e Desideri intanto mandavano a chiamare, a uno a uno, i nostri "ragionieri" che venissero a testimoniare, e, finalmente, dopo tanto, C. confessò. Venne allontanato dal nostro studio e fu relegato nello sgabuzzino; non fece più ricreazione con noi, né mangiò alla nostra tavola, né dormi più con noi nel nostro dormitorio. I soldi vennero rimborsati e tutti ringraziarono Fornasar, perché fu per via del suo denaro che essi ricuperarono il proprio.

Lo credevamo perso.
Ho visto la fotografia del "Picio" Viverit, che Furio Dorini ha mandato ad alcuni di noi, dopo essere andato a trovarlo. E non posso fare a meno di ripensare a com'era ai tempi del "Filzi". Ricordo benissimo la prima volta che lo vidi. Eravamo in quel cortiletto dietro il salone dell'Excelsior, io, Poso, Atelli, credo anche Aquilante e Tarticchio, quando ci si avvicinò questo ragazzino minuto, ricciolino, appena arrivato in collegio. Parlava in italiano, non in dialetto, e ci raccontò con una luce strana negli occhi di un incontro che aveva fatto sul treno che lo portava a Cervignano. "C'era un negro nel nostro scompartimento", ci disse, con eccitazione e con quell'aria di sorpresa che si poteva avere allora, quando i negri erano una rarità nel nostro Paese. Non diventammo subito amici, ma il nostro rapporto fu quello normale tra compagni di collegio e di scuola. La nostra amicizia nacque l'anno dopo, a Gorizia, e si intensificò quando entrambi ci iscrivemmo, con Ranzato, al ginnasio. E più che un'amicizia, fu un'intesa, una complicità, irriverente nei confronti dei superiori del collegio, ma anche di certi compagni che se la tiravano un po'. Ma senza malizia, con simpatia e con un pizzico d'ironia.Ci capivamo a volo, con un solo sguardo, e usavamo tra noi una specie di gergo fatto di parole inventate, di giochi verbali assurdi, incomprensibili agli altri. Disegnavamo fumetti su aspetti inventati della vita del Bon e del Gabrielli (intitolate, in latino, "De Porcelli vita" o "De Tullioli vita"), raccoglievamo le astrusità del "dolce stil novo" del Bon, e di altri, e avevamo anche cominciato una specie di romanzo satirico di avventure su Bon e Zele, che avevamo intitolato "I due complici". Spesso prendevamo in giro il povero Ranzato, su presunte storie di cotte per certe compagne di scuola, e per una specie di cintura del dottor Gibaud che lui indossava sotto la canottiera. Una voltagli abbiamo sciolto nel caffè del mattino alcune compresse di sonnifero che ci aveva dato un compagno di ginnasio, e l'abbiamo fatto dormire per tutta la mattinata a scuola. La sera, un paio di volte la settimana, uscivamo, tutti e tre, Viverit, Ranzato ed io, per andare a lezione di scherma. Non so come il Tulzo si fosse convinto di darci il permesso, ma per noi era respirare aria di libertà, in ore oltretutto impossibili per gli altri. Qualche volta, invece di andare a lezione di scherma, filavamo di nascosto al cinema, ed erano altre occasioni di libertà, ancora più preziose perché trasgressive. Potrei parlare ancora a lungo di queste storie, ma preferisco lasciarle nel ricordo. E avrei voluto lasciare nel ricordo l'aspetto del "Picio" che mi era familiare e caro. Invece la sua immagine recente, con quel sorriso triste, mi ha dato solo un'immensa angoscia Nota: in effetti avevamo dato Viverit per perduto, perché da molti anni ne avevamo perso le tracce, dopo aver avuto dai suoi parenti notizie sconfortanti. Il benemerito Furio Peck Dorini si è recato a trovarlo e con lui abbiamo ripreso i contatti. Anche se, chiaramente, è molto lontano da quello di una volta. Del resto, a che età semo rivadi?